Archive for June, 2010

Della dipladenia o sul ratto della pianta


22 Jun

Mi rubano una dipladenia dalla finestra. Mi chiamano per rassicurarmi che è stato un estraneo. Una vecchia claudicante: queste le indicazioni di chi ha visto. Che non ha fermato l’anziana signora dal fattaccio ma lo ha raccontato per dissuadermi dal pensiero di un torto del vicino. Pensiero che non credo avrei avuto, visto che non ho cattivi rapporti di vicinato.

Ora, oltre all’inferriata che protegge la finestra dall’entrata di potenziali ladri, c’è una rete verde che protegge i fiori dalle vecchie signore che passeggiano a mezzogiorno per le strade di Milano, forse di ritorno dalla spesa.

Uno dei 1000 volti di questa Milano sempre più disperata: non giovani ragazzi in uscita dai locali con le loro mani lunghe – che avrei capito e accettato di più – ma un’anziana zoppa che ha avuto tutto il tempo di sradicare la pianta dal vaso e portasela via in pieno giorno in circonvallazione senza che nessuno le dicesse nulla.

E poco importa se quella pianta aveva una storia, mia e sua: alla vecchia è piaciuta e renderà più bella la sua finestra. Ciò che è mio è diventato suo: in un perfetto regime dittatoriale dove l’uomo non si rende degno di questo nome e non partecipa dell’umano che è in lui.

Io sono inorridita guardando la mia città dove anche gli anziani rubano, sono intristita di fronte a questo silenzio, pauroso o indifferente che sia, dei miei coetanei, sono sgomenta dal dover difendere il mio “giardinetto” in una lotta continua alla sopravvivenza – che, a ben guardare, avrebbe dovuto essersi già ben trasformata in vita se la storia dell’uomo è storia evolutiva, come mi hanno insegnato.

Forse le cose non stanno così. Inizio ad avere gravi dubbi. Ho la sensazione che stiamo sprecando le vite passate e presenti perchè non abbiamo ancora imparato un granché.

Mi dicono che è solo l’inizio, che il decadimento a cui assisto ogni giorno e col quale lotto ogni giorno – incredibilmente – non ha ancora toccato il suo peggio.

Questo mi preoccupa perché del peggio l’uomo sembra sempre esserne capace.

Saramago e la necessità del filosofare


20 Jun

Lo scrittore portoghese aveva un suo blog (http://caderno.josesaramago.org/), con una versione anche in italiano (http://quadernodisaramago.wordpress.com/). Ecco l’ultima riflessione postata dal premio Nobel il 18 giugno 2010.

Pensar, pensar

Por Fundação José Saramago

“Acho que na sociedade actual nos falta filosofia. Filosofia como espaço, lugar, método de refexão, que pode não ter um objectivo determinado, como a ciência, que avança para satisfazer objectivos. Falta-nos reflexão, pensar, precisamos do trabalho de pensar, e parece-me que, sem ideias, nao vamos a parte nenhuma”.

“Penso che nella società attuale ci manchi la filosofia. Filosofia come spazio, luogo, metodo di riflessione, che può anche non avere un obiettivo determinato, come la scienza che invece procede per soddisfare i suoi obiettivi. Ci manca la riflessione, pensare, necessitiamo del lavoro di pensare e mi sembra che, senza idee, non andiamo da nessuna parte”

http://caderno.josesaramago.org/2010/06/18/pensar-pensar/

Serata 26 maggio 2010


09 Jun

L’età contemporanea: la felicità contraddetta.

Il motto del 1700 – massima felicità divisa per tutti- nel 1800 ha l’amaro sapore dell’infelicità individuale in vista del benessere collettivo. Dopo la rivoluzione kantiana e la messa in discussione da parte della ragione della possibilità di giungere alla Verità, il pensiero cerca nuove strade e la domanda che si prospetta è come sia possibile essere felici in un mondo che non sembra essere dominato dalla ragione ma dal dolore e dalla sofferenza.

Nuove ragioni cercano di dare un senso alla vita.

Schopenhauer: ecco che la realtà appare ordinata, provvista di senso, solo come rappresentazione, come nostro modo di vederla e di ricostruirla, mentre in sé, come noumeno, è irrazionale, priva di scopi e di senso. L’uomo crede di agire sulla base di motivi e di intenzioni, ma è la Volontà, cieca e irrazionale, a governare ogni cosa e condanna l’uomo a essere infelice. La condizione umana, sia a livello individuale che sociale, è caratterizzata dall’infelicità, dalla lacerazione e dal conflitto, dalla mancanza di senso.

Della felicità possiamo parlare solo negativamente.

Il desiderio è il motore di ogni agire umano ed esso, come volevano gli antichi, deriva da una mancanza (si desidera ciò che non si ha), da un bisogno fonte di dolore. L’appagamento non genera felicità ma noia per il momentaneo soddisfacimento del bisogno e, poi, nuovi desideri perché l’uomo è esso stesso volontà. Non desidera qualcosa ma è desiderio, volontà.

Qualsiasi soddisfacimento, o ciò che in genere suol chiamarsi felicità, è propriamente e sostanzialmente sempre negativo, e mai positivo. Non è una sensazione di gioia spontanea, e di per sé entrata in noi, ma sempre bisogna che sia l’appagamento d’un desiderio. Imperocché desiderio, ossia mancanza, è la condizione preliminare d’ogni piacere. Ma con l’appagamento cessa il desiderio, e quindi anche il piacere. Quindi l’appagamento o la gioia non può essere altro se non la liberazione da un dolore, da un bisogno: e con ciò s’intende non solo ogni vero, aperto soffrire, ma anche ogni desiderio, la cui importunità disturbi la nostra calma, e perfino la mortale noia, che a noi rende un peso l’esistenza. Ora, è difficilissimo raggiungere e menare a compimento alcunché: a ogni nostro proposito contrastano difficoltà e fatiche senza fine, e a ogni passo si accumulano gli ostacoli. Quando poi finalmente tutto è superato e raggiunto, nient’altro ci si può guadagnare, se non d’essere liberati da una sofferenza o da un desiderio: quindi ci si trova come prima del loro inizio, e non meglio. Direttamente dato è a noi sempre il solo bisogno, ossia il dolore. Invece l’appagamento e il piacere non li possiamo conoscere che mediatamente, per ricordar la passata sofferenza e privazione, venuta meno all’apparire di quelli”.

In questo mondo, fatto di dolore e sofferenza ove l’unica possibilità di felicità per l’uomo è quella di  agire negativamente, cercando cioè di essere il meno infelice possibile, Schopenhauer auspica di raggiungere l’ascesi e la noluntas come condizioni di vita passabilmente felice.

Nietzsche ci parla di una felicità che gli uomini non hanno ancora conosciuto e di cui solo sapremo e vivremo se saremo in grado di superare l’uomo che siamo.

Zarathustra afferma: Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato.

Il superuomo accetta con gioia dionisiaca la vita così com’è, animato da un fatalismo coraggioso che lo rende in grado di assumere su di sé il peso delle contraddizioni della vita e delle sue sofferenze. E’ al di là del bene e del male, è senza morale, fedele alla terra e sordo a qualsiasi promessa ultraterrena: la terra è la sola possibilità di guarigione.

La vita è transizione e tramonto.

Zarathustra (…) parlò così:

L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, un cavo al di sopra di un abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi.La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione. Io amo gli uomini del grande disprezzo, perché essi sono anche gli uomini della grande venerazione e frecce che anelano all’altra riva. Io amo coloro che non aspettano di trovare una ragione dietro le stelle per tramontare e offrirsi in sacrificio: bensì si sacrificano alla terra, perché un giorno la terra sia del superuomo.”

La volontà di potenza è la condizione della felicità del superuomo, è la volontà dell’individuo di affermare la propria prospettiva del mondo.

“Non bisogna interpretare la felicità soltanto come soddisfazione”: la felicità dovrebbe essere interpretata come ascesa. “L’uomo è felice non quando è sazio, ma quando è capace di vittoria”. Vittoria su di sè, sul proprio dolore, sulla propria condizione che ha il sapore del superare se stessi. Nietzsche vagheggia un’umanità futura che sia capace di fare della propria vita un esperimento: è la vita intera ad essere il soggetto della felicità dove l’uomo inventa con coraggio e con gioia la propria esistenza, consapevole di essere lui solo il creatore dei propri valori.

D’altra parte l’uomo può contare solo su di sé. Dio è morto: nessun Dio ci può salvare.

Il nichilismo irrompe nel mondo moderno: il nulla appare come il fondamento dei valori e degli ideali su cui, per secoli, si è retta la civiltà occidentale-cristiana; Dio è la nostra più lunga menzogna. La tragicità della modernità sta nel suo essere precipitata nella percezione dell’insensatezza del mondo e della crisi di tutti i valori: risentimento, pessimismo e odio per la vita avvicinano l’uomo al nulla.

L’uomo ha il compito di divenire egli stesso un dio, di andare oltre l’uomo, di diventare superuomo: colui che sarà in grado di sopportare l’idea che l’Universo non ha un senso assoluto nell’accettazione che il tempo non ha fine e il divenire non ha scopo, nell’eterno ritorno dell’uguale ove soltanto ogni esistenza in ogni attimo ha tutto il suo senso in sé, affermerà se stesso, dirà sì alla vita, conoscerà una felicità ancora mai provata.

Con Nietzsche siamo giunti alle porte del 1900.

E il 1900 è riuscito a superare l’uomo? A creare il superuomo? Abbiamo conosciuto noi, uomini del futuro post Nietzsche, questa felicità? O forse il nichilismo di cui Nietzsche ha parlato e parlava ai suoi contemporanei e di cui ne denunciava le conseguenze, è forse ancora la grande malattia di questo XX e XXI secolo?

Forse non è più il Dio delle religioni ad essere la nostra grande menzogna ma altri dei sono venerati oggi annichilendo l’uomo contemporaneo.

Quale felicità è possibile per noi?

Serata 19 maggio 2010


08 Jun

L’età Moderna: la felicità ragionata.

L’uomo moderno si ribella all’uomo medioevale e, in particolare, a quell’impotenza in cui la filosofia cristiana – ancella della fede – lo aveva gettato. I moderni rivendicano la propria dignità e la propria superiorità rispetto alle altre creature del mondo, vivono nel qui e ora di questo tempo e di questo mondo, pensano la felicità e alla possibilità di una vita felice in questo mondo contro quella felicità possibile solo oltre la morte.

Abbiamo preso in considerazione due filosofi, rappresentanti originali del proprio secolo e che hanno avuto filosofie sulla felicità molto diverse.

Montaigne: filosofo per caso o per necessità, i suoi interlocutori preferiti furono gli antichi, che guardavano alla conoscenza dell’uomo come mezzo per il raggiungimento della felicità. La filosofia viene da lui intesa come saggezza che insegna all’uomo come vivere per essere felici.

Questo scopo, la vita felice, è al centro dei suoi Saggi.

Con Montaigne il «conosci te stesso» socratico, da cui la conoscenza inizia, non sortisce una risposta universale sull’essenza dell’uomo ma solo sulle caratteristiche del singolo uomo: vivendo e osservando gli altri vivere, cercando di riconoscere se stessi rispecchiati nell’esperienza degli altri, impareremo a conoscere noi stessi e, quindi, l’uomo.

Ogni uomo è diverso dagli altri, e, non essendo possibile stabilire i medesimi precetti per tutti, bisogna che ciascuno si costruisca una saggezza a propria misura.

Ciascuno non può essere saggio se non della propria saggezza.E in questa ricerca di una saggezza su misura del singolo, Montaigne dispone di una regola generale: dire sì alla vita accettando consapevolmente ciò che siamo.

Kant: “Felicità è l’appagamento di tutte le nostre inclinazioni (sia extensive, riguardo alla loro molteplicità, sia intensive, rispetto al grado sia anche protensive, rispetto alla durata). La legge pratica, fondata sul movente della felicità, io la chiamo prammatica (regola di prudenza); la legge invece – se mai esiste – che non ha altro movente se non il meritare di essere felice, io la chiamo morale (legge etica). La prima legge consiglia che cosa dobbiamo fare, se vogliamo possedere la felicità; la seconda legge ci ordina come dobbiamo comportarci, per divenire degni della felicità. La prima legge si fonda su principi empirici: in effetti, io non posso sapere se non mediante l’esperienza, quali siano le inclinazioni che vogliono essere soddisfatte, né quali siano le cause naturali che possono portare alla soddisfazione di tali inclinazioni. La seconda legge astrae dalle inclinazioni e dai mezzi naturali per soddisfarle; essa considera soltanto la libertà di un essere razionale in generale, e le sole condizioni necessarie, in base a cui la libertà possa armonizzarsi con la distribuzione della felicità, secondo principî. Questa legge, dunque, può almeno fondarsi su mere idee della ragione pura, ed essere conosciuta a priori”.

Ecco che in Kant la ragione produce angoscia e inquietudine perchè è vero che libera l’uomo dallo stato sensibile della condizione istintuale ma al tempo stesso, mettendolo di fronte alla libertà, gli fa sentire tutta la sua fragilità, la sua solitudine, la sua infelicità.

L’uomo kantiano non è pensato per vivere felice ma per vivere per meritarsi di essere felice.

Se il medioevo aveva alzato le aspettative, i moderni riportano l’uomo e la sua felicità sulla terra che abitiamo. La ragione rivendica la propria legittimità e si laicizza dalla fede: il pensiero razionale vuole la propria autonomia dalla fede e scaglia nuovamente all’uomo la responsabilità della propria felicità. Una felicità che ha il sapore del compromesso fra il diritto e il dovere ad essa.

Serata 12 maggio 2010


08 Jun

Il Medioevo: la felicità promessa.

La possibilità della felicità antica si trasforma in una promessa e in una speranza nel millennio medioevale. L’uomo medioevale riconosce come naturale il desiderio dell’uomo per la felicità e in accordo con l’antica filosofia greco romana, ritiene che essa possa essere raggiunta attraverso la ricerca della sapienza immortale e il possesso del bene sommo.

La felicità rimane un possesso che appaga un desiderio ma, perché sia autentica, occorre adesso che il bene voluto sia veramente tale: è necessario, quindi, conoscere e determinare quale sia il vero bene. E questo vero e sommo Bene, altro non è se non Dio. L’uomo raggiungerà il bene conoscendo ed imitando Dio.

Il medioevo e i suoi uomini pensano e raccontano, quindi, una felicità certamente possibile ma che non è di questo mondo, troppo umano e terreno, soggetto al divenire e al peccato perché gli uomini possano essere davvero felici. Solo ciò che può essere posseduto eternamente può garantire all’uomo un’esistenza felice: solo ciò che non è umano e, quindi, mortale ma oltrepassa la morte, possiede la caratteristica essenziale della vita felice: una vita che non può perdere se stessa ma anzi ritrovarsi nella luce e nel principio di ogni cosa.

Una felicità che sarà tale solo nell’ultra terreno, nel mondo ultra mondano: solo lì si potrà attualizzare la vita felice tanto desiderata da ogni uomo, quando ogni uomo si ricongiungerà con Dio, principio e fine, senso primo e significato ultimo dell’esistere umano.

Agostino d’Ippona: la felicità è VITA BEATA, la vita beata è GODIMENTO DELLA VERITA’, è il POSSESSO ETERNO DEL BENE SOMMO.

Boezio: la felicità dell’uomo risiede in un bene che niente e nessuno potrebbe strappargli: la certezza che il mondo è governato da una provvidenza universale.

“Perché dunque, o mortali, cercate all’esterno la felicità che è posta dentro di voi? Vi lasciate irretire dall’errore e dall’ignoranza.”

La suprema felicità non consiste nel possesso delle cose che stanno fuori di noi, ma nella padronanza assoluta di noi stessi.

Tommaso d’Aquino: la felicità umana poggia solo su Dio, perchè solo Dio, essendo il bene, può soddisfare completamente il desiderio umano di felicità: la volontà umana tende necessariamente al bene massimo. La felicità è contemplazione di Dio, che sfocia nell’amore e nella gioia. In questa vita è raggiungibile solo un certo grado di felicità, maggiore se la condotta virtuosa è accompagnata anche da beni esterni, dalla salute e da amici. La felicità piena, però, è raggiungibile soltanto nella vita eterna e in tal caso dipenderà dalla grazia di Dio.

L’uomo medioevale è immagine di Dio-Trinità, che si scopre tale attraverso un processo conoscitivo che avviene in interiore homine perché è qui che dimora la Verità; un cammino che renderà l’uomo veramente felice perché lo porterà in possesso di quello che è il vero bene; un cammino di ricerca intrapreso per amore. E la filosofia si adopera a conferma e a dimostrazione razionale che Dio esista.

Gli uomini del Medioevo alzano la posta: in gioco non vi è più la possibilità di una vita felice ma la possibilità di una vita eternamente beata.

In questa vita mortale, l’uomo ha da compiere la sua scelta: comportarsi virtuosamente partecipando all’eternità o agire viziosamente destinandosi alla morte eterna.