Serata 26 maggio 2010

09 Jun

L’età contemporanea: la felicità contraddetta.

Il motto del 1700 – massima felicità divisa per tutti- nel 1800 ha l’amaro sapore dell’infelicità individuale in vista del benessere collettivo. Dopo la rivoluzione kantiana e la messa in discussione da parte della ragione della possibilità di giungere alla Verità, il pensiero cerca nuove strade e la domanda che si prospetta è come sia possibile essere felici in un mondo che non sembra essere dominato dalla ragione ma dal dolore e dalla sofferenza.

Nuove ragioni cercano di dare un senso alla vita.

Schopenhauer: ecco che la realtà appare ordinata, provvista di senso, solo come rappresentazione, come nostro modo di vederla e di ricostruirla, mentre in sé, come noumeno, è irrazionale, priva di scopi e di senso. L’uomo crede di agire sulla base di motivi e di intenzioni, ma è la Volontà, cieca e irrazionale, a governare ogni cosa e condanna l’uomo a essere infelice. La condizione umana, sia a livello individuale che sociale, è caratterizzata dall’infelicità, dalla lacerazione e dal conflitto, dalla mancanza di senso.

Della felicità possiamo parlare solo negativamente.

Il desiderio è il motore di ogni agire umano ed esso, come volevano gli antichi, deriva da una mancanza (si desidera ciò che non si ha), da un bisogno fonte di dolore. L’appagamento non genera felicità ma noia per il momentaneo soddisfacimento del bisogno e, poi, nuovi desideri perché l’uomo è esso stesso volontà. Non desidera qualcosa ma è desiderio, volontà.

Qualsiasi soddisfacimento, o ciò che in genere suol chiamarsi felicità, è propriamente e sostanzialmente sempre negativo, e mai positivo. Non è una sensazione di gioia spontanea, e di per sé entrata in noi, ma sempre bisogna che sia l’appagamento d’un desiderio. Imperocché desiderio, ossia mancanza, è la condizione preliminare d’ogni piacere. Ma con l’appagamento cessa il desiderio, e quindi anche il piacere. Quindi l’appagamento o la gioia non può essere altro se non la liberazione da un dolore, da un bisogno: e con ciò s’intende non solo ogni vero, aperto soffrire, ma anche ogni desiderio, la cui importunità disturbi la nostra calma, e perfino la mortale noia, che a noi rende un peso l’esistenza. Ora, è difficilissimo raggiungere e menare a compimento alcunché: a ogni nostro proposito contrastano difficoltà e fatiche senza fine, e a ogni passo si accumulano gli ostacoli. Quando poi finalmente tutto è superato e raggiunto, nient’altro ci si può guadagnare, se non d’essere liberati da una sofferenza o da un desiderio: quindi ci si trova come prima del loro inizio, e non meglio. Direttamente dato è a noi sempre il solo bisogno, ossia il dolore. Invece l’appagamento e il piacere non li possiamo conoscere che mediatamente, per ricordar la passata sofferenza e privazione, venuta meno all’apparire di quelli”.

In questo mondo, fatto di dolore e sofferenza ove l’unica possibilità di felicità per l’uomo è quella di  agire negativamente, cercando cioè di essere il meno infelice possibile, Schopenhauer auspica di raggiungere l’ascesi e la noluntas come condizioni di vita passabilmente felice.

Nietzsche ci parla di una felicità che gli uomini non hanno ancora conosciuto e di cui solo sapremo e vivremo se saremo in grado di superare l’uomo che siamo.

Zarathustra afferma: Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato.

Il superuomo accetta con gioia dionisiaca la vita così com’è, animato da un fatalismo coraggioso che lo rende in grado di assumere su di sé il peso delle contraddizioni della vita e delle sue sofferenze. E’ al di là del bene e del male, è senza morale, fedele alla terra e sordo a qualsiasi promessa ultraterrena: la terra è la sola possibilità di guarigione.

La vita è transizione e tramonto.

Zarathustra (…) parlò così:

L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, un cavo al di sopra di un abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi.La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione. Io amo gli uomini del grande disprezzo, perché essi sono anche gli uomini della grande venerazione e frecce che anelano all’altra riva. Io amo coloro che non aspettano di trovare una ragione dietro le stelle per tramontare e offrirsi in sacrificio: bensì si sacrificano alla terra, perché un giorno la terra sia del superuomo.”

La volontà di potenza è la condizione della felicità del superuomo, è la volontà dell’individuo di affermare la propria prospettiva del mondo.

“Non bisogna interpretare la felicità soltanto come soddisfazione”: la felicità dovrebbe essere interpretata come ascesa. “L’uomo è felice non quando è sazio, ma quando è capace di vittoria”. Vittoria su di sè, sul proprio dolore, sulla propria condizione che ha il sapore del superare se stessi. Nietzsche vagheggia un’umanità futura che sia capace di fare della propria vita un esperimento: è la vita intera ad essere il soggetto della felicità dove l’uomo inventa con coraggio e con gioia la propria esistenza, consapevole di essere lui solo il creatore dei propri valori.

D’altra parte l’uomo può contare solo su di sé. Dio è morto: nessun Dio ci può salvare.

Il nichilismo irrompe nel mondo moderno: il nulla appare come il fondamento dei valori e degli ideali su cui, per secoli, si è retta la civiltà occidentale-cristiana; Dio è la nostra più lunga menzogna. La tragicità della modernità sta nel suo essere precipitata nella percezione dell’insensatezza del mondo e della crisi di tutti i valori: risentimento, pessimismo e odio per la vita avvicinano l’uomo al nulla.

L’uomo ha il compito di divenire egli stesso un dio, di andare oltre l’uomo, di diventare superuomo: colui che sarà in grado di sopportare l’idea che l’Universo non ha un senso assoluto nell’accettazione che il tempo non ha fine e il divenire non ha scopo, nell’eterno ritorno dell’uguale ove soltanto ogni esistenza in ogni attimo ha tutto il suo senso in sé, affermerà se stesso, dirà sì alla vita, conoscerà una felicità ancora mai provata.

Con Nietzsche siamo giunti alle porte del 1900.

E il 1900 è riuscito a superare l’uomo? A creare il superuomo? Abbiamo conosciuto noi, uomini del futuro post Nietzsche, questa felicità? O forse il nichilismo di cui Nietzsche ha parlato e parlava ai suoi contemporanei e di cui ne denunciava le conseguenze, è forse ancora la grande malattia di questo XX e XXI secolo?

Forse non è più il Dio delle religioni ad essere la nostra grande menzogna ma altri dei sono venerati oggi annichilendo l’uomo contemporaneo.

Quale felicità è possibile per noi?

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